Processo

Sauropipe

Qual è il miglior processo di lavorazione? Tutti, è la risposta giusta, purché il prodotto, nel rispetto dei canoni tecnici di base, dia piacere al fumatore e, nello stesso tempo, riesca a esprimere l’identità del costruttore

Per questo, quando un neofita mi chiede se è meglio forare al tornio, a mano o al trapano a colonna rispondo: come ti viene meglio. Allo stesso modo, per raggiungere la forma finale della pipa alcuni preferiscono usare la banda, altri le lime, altri ancora i coltelli o le striscette di carta abrasiva.

È inevitabile che all’inizio la scelta del processo dipenda in massima parte dalla “scuola” in cui si è cresciuti. Io, per esempio, ho imparato forando al tornio per metalli, ma può capitare che la radica richieda un approccio diverso. La forma del blocchetto, l’andamento particolare delle venature, la ricerca di uno shape ardito o, semplicemente, la presenza di numerosi difetti sulla superficie del legno, possono indurre a preferire la “foratura a mano”. In tutti questi casi, creo prima la forma e poi procedo a forare a mano. In questo ho avuto un Maestro eccezionale: Gabriele Dal Fiume.

In ogni caso, per un artigiano, imparare cose nuove e da scuole diverse deve essere sempre un’esperienza affascinante, altrimenti si finisce per costruire solo pesciolini d’oro sempre uguali, come Aureliano Buendia in “Cent’anni di solitudine”.

Per me l’intero processo comincia su un comodo divano buttando giù disegni di forme, di particolari, o di intere pipe. Vivo questo momento come una preparazione indispensabile all’azione che ne scaturirà: mettere in moto l’immaginazione creando una storia grafica del mio pensiero.

Quando ho raccolto un buon numero di progetti, passo a scegliere i blocchetti di radica idonei. È ancora in moto l’immaginazione poiché bisogna “vedere” le venature che la pipa avrà, una delle operazioni più difficili dell’intero processo e che distingue i grandi maestri da tutti gli altri. Ispirarsi alla forma della radica e alla grana del legno per progettare una pipa, significa anche ridurre al minimo gli sprechi di materiale. Avere questa capacità è un dono o un’abilità che si acquisisce in molti anni di lavoro, in ogni caso mette in luce il grande rispetto che un pipemaker deve avere per la radica.

Una volta scelti i blocchi per ogni progetto, li foro al tornio, modello la forma di massima al disco abrasivo e rifinisco a mano con l’aiuto di lime, strisce di carta abrasiva, levigatrice a nastro, platorelli, coltelli o dremel, a seconda della necessità.

Trovo utilissimo lavorare a più pipe contemporaneamente, un prezioso consiglio datomi da Mimmo Romeo poco dopo averlo conosciuto. In effetti, lavorare a una sola pipa alla volta non consente di essere sufficientemente distaccati dal progetto per vederlo “dal di fuori” e induce una certa ossessività. La ricerca della qualità richiede di imparare a usare bene l’energia ossessiva tipica di ogni artigiano: nell’ossessività, “buono” e “un po’ meno che buono” diventano indistinguibili. Così, passare da una pipa all’altra diventa un modo per gestire quest’energia, distaccarsi e individuare con più chiarezza la possibile evoluzione del progetto originale, quasi mai definitivo come si pensava all’inizio.

Per ogni pipa costruisco il bocchino a mano. Raramente coloro, ma gradisco usare oli per aumentare il contrasto. Dopo la foratura e la definizione della spinetta su tornio, lavoro la forma con disco abrasivo e lime grosse, per poi passare alla rifinitura con grane medie e fini, limette e bisturi. Poi, finalmente, l’agognato momento: il passaggio ai dischi in cotone per la lucidatura e la ceratura. La pipa acquisisce luce, le venature si esaltano e ci si chiede come si sia potuto costruire un oggetto così bello a partire da un semplice blocco di legno. Un ultimo sguardo, quasi mai del tutto soddisfatto, perché la creatività non contempla questa emozione, e la pipa finisce nel suo sacchetto, pronta a essere offerta a chiunque vorrà fumarla.

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